L’invenzione della Natura di Andrea Wulf (Luiss University Press, 2017) ripercorre la vita rocambolesca di uno dei padri delle scienze della terra. Una recensione
“Il più grande scienziato viaggiatore di tutti i tempi”, parola di Darwin. “L’uomo più famoso al mondo dopo Napoleone”, il giudizio di molti suoi contemporanei. Eppure oggi, probabilmente, non lo abbiamo neanche sentito nominare. A ricordarcelo ci pensa la storica inglese Andrea Wulf nel suo L’Invenzione della Natura. Le avventure di Alexander von Humboldt, l’eroe perduto della scienza. Un libro insolito, a metà strada tra la biografia e la riflessione sul rapporto tra scienza, umanità e natura siano cambiati nel corso degli ultimi due secoli. Quasi quattrocento pagine, che però volano. D’altronde, vista la vita eccezionalmente eccentrica e avventurosa del protagonista, non poteva essere altrimenti.
Il prussiano Alexander von Humboldt, classe 1769, fu contemporaneamente accademico, esploratore, geografo, alpinista, botanico, attivista, scrittore. E naturalmente, geologo. L’ultimo uomo sulla Terra, forse, a incarnare la figura del saggio che si occupa di tutto, o quasi tutto. E non da semplice appassionato, ma da ricercatore di prim’ordine. E da divulgatore, se così si può dire: i suoi libri furono dei veri e propri best seller che affascinarono I lettori di tutto il mondo. “Tutti”, scrive Wulf, “impararono qualcosa da lui: coltivatori e artigiani, alunni e insegnanti, artisti e musicisti, scienziati e politici”.
Anche Charles Darwin crebbe con il mito di Humboldt. Il futuro autore de L’Origine delle Specie nel suo viaggio a bordo del Beagle rileggeva tutte le sere i vividi resoconti delle avventure del naturalista prussiano attraverso l’America del Sud: un viaggio durato cinque anni che, tra scalate dei vulcani andini, rocambolesche esplorazioni dei fiumi amazzonici, incontri con culture indigene e un numero sterminato di scoperte scientifiche, avrebbe influenzato in maniera decisiva tutti i pensatori del suo tempo.
Tra questi Charles Lyell, il padre della geologia moderna, che con l’irrequieto prussiano tenne per anni una fitta corrispondenza. Humboldt, un secolo e mezzo prima dell’avvento della tettonica delle placche, aveva intuito che Africa e Sud America fossero state un tempo unite. Aveva scoperto i diamanti sui monti Urali, osservò il Vesuvio in eruzione, studiò i vulcani andini, esplorò le montagne che oggi si chiamano Dolomiti, dove i geologi si accapigliavano nella disputa tra “plutonisti” e “nettunisti”. Fu anche tra i primi esperti minerari a occuparsi, tra l’altro, delle condizioni di lavoro dei minatori e della loro sicurezza.

Humboldt era sicuro di sé, ma non presuntuoso: più che compiere esercizi di erudizione, amava comparare le aree geografiche distanti e le diverse discipline. Non esitava a chiedere agli specialisti che, su certi argomenti, ne sapevano più di lui. Descrisse per primo innumerevoli specie, e apportando innovazioni nei campi più disparati, non fu in questo che fece davvero la differenza. A farla fu, per dirla con Wulf, “l’invenzione della natura”: lo sguardo d’insieme sul mondo come un enorme sistema di interconnessioni, che unisce il pianeta nelle sue componenti geologiche e biologiche. Qualcosa di infinitamente complesso, un rizoma, direbbe oggi qualcuno – qualcosa di cui fa parte anche l’uomo. Non solo con la sua presenza fisica, ma con la sua cultura. Molto, molto prima della Convenzione europea del Paesaggio, per dirne una…
Pur avendo descritto per primo innumerevoli specie, e apportando innovazioni nei campi più disparati, quello per cui fece davvero la differenza fu lo sguardo d’insieme.
Humboldt è stato tra i primi a prendere coscienza dei rischi della devastazione dell’ambiente, e ha persino anticipato il timore che l’azione dell’uomo potesse causare cambiamenti climatici.
Era consapevole della necessità di raggiungere un pubblico il più ampio possibile, per farlo si è servito di tutti i mezzi, dalle conferenze pubbliche a uno stile che lo avvicinava alla letteratura. Non è un caso che fu amico intimo di Goethe, e che ispirò moltissimi pittori.
Uno così non poteva certo astenersi dalla politica della sua epoca: sostenne infatti le battaglie dell’amico Simon Bolivar per la liberazione dell’America Latina dal colonialismo spagnolo, si batté per l’abolizione della schiavitù e in difesa degli indios.
Non c’è da stupirsi che un uomo del genere fosse famoso ai quattro angoli del globo. Ma come abbiamo fatto a dimenticarlo? Forse perché, sostiene Wulf, dopo un secolo di studi e di graduale presa di coscienza del problema ambientale, “la sua concezione della natura è penetrata come per osmosi nelle nostre coscienze”. Così tanto che ormai l’uomo che per primo le ha espresse è diventato invisibile.
“la sua concezione della natura è penetrata come per osmosi nelle nostre coscienze”
Ma l’altro, importante motivo è che questa visione complessa di scienza e natura si sarebbe rivelato incompatibile con la scienza sempre più “tecnica” e riduzionista del secolo successivo.
Un riduzionismo che oggi, pian piano, le Scienze della Terra stanno superando, anche se non tutti se ne sono accorti.
Sarebbe impossibile affrontare i cambiamenti climatici, la mitigazione dei rischi e tutti i problemi ambientali, ormai sempre più connessi con quelli sociali, agendo per compartimenti stagni e senza coinvolgere l’opinione pubblica. Ed è qui che torna, prepotente, la lezione di Humboldt.
L’eroe perduto della Scienza è una biografia di uno scienziato dell’Ottocento, ma, a ben vedere, parla soprattutto di oggi.